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Adelaide – Prima Parte

today11 Ottobre 2022 23

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“Al candido fiore dalla maestosità imperiale e dalla saggezza singolare, la straordinaria Signora Sovrana Matilde, dal più umile dei servi di Cristo” 

(dedica delle “Gesta dei Sassoni” di Vitichindo de Corvey)

Le lepri saltano il più lontano possibile, le acciuffa quello che riesce a raggiungerle. Così, come al maschio serve quanta più energia, alla femmina necessita l’istinto. Sei nata donna, prendi fiato e fuggi.

Mia mamma era nata in Borgogna, terra dai sapori forti. Suo padre era morto presto e sua madre si era subito risposata con il Re d’Italia, a sua volta genitore di quell’uomo al quale era già stata promessa quando aveva solo tre anni. Lei e Lotario, con il destino forzato, si sposarono dieci anni dopo. Il giorno del suo sedicesimo compleanno giurò fedeltà eterna all’uomo che, per tutta una vita, chiamò il mio Re. Lotario, al suo confronto, era un uomo vicino a una bambina cresciuta a forza, benché fosse un uomo buono che le permise di fare quello che muoveva naturalmente le sue corde. Adelaide, la mamma, era capace di vivere solo in maniera asciutta, dando senza ricevere, con un interesse speciale verso coloro che stavano ai margini, per dimenticarsi quanto lei stesse in equilibrio sul filo di un rasoio, certi giorni collerica, altri giù negli abissi, mai in pace su questa Terra.

Diventò mamma di Emma e due anni dopo Lotario venne avvelenato da un parente prossimo. Serviva vedova e pronta a sposare un altro Re, il quale voleva appropriarsi del trono con le buone e con le cattive insieme. Fu in questo momento che il cuore di mia madre divenne guardingo e le si raggelò il sangue nelle vene: capì di essere nata preda e decise di fuggire alla cieca attraverso le Alpi…

Ci aveva volute portare lì. C’ero io, che dentro la mia tunica dell’oblio, non ricordavo più nemmeno come fosse fatto il mio viso, dacché alle donne consacrate non era permesso il futile vanto di specchiarsi, nemmeno quando ci si lavava il viso la mattina. C’era anche Teofano, mia cognata, di una bellezza incorruttibile anche dall’improvvisa morte del mio adorato fratello, avvenuta meno di un mese prima. Era stato consumato da una malattia e, purtroppo, non c’era nessun carnefice da poter giustiziare. Io pregavo Nostro Signore per darmi la forza. Lei riusciva a sopportare il dolore
perché, come un veleno, si permetteva ogni giorno di provarne un piccolo sorso. Mamma non aveva scelto un posto a caso. Il sole splendeva in cielo, ma tirava il vento a spazzare via una notte piovosa. I raggi colpivano di sbieco le torri scure che tentavano di toccare i fiordi di nuvole che se ne andavano di fretta. Ci fu un attimo di silenzio tra noi. Lei ci guardava rimanere zitte, intontite da quell’atmosfera sinistra di quel poggio al di sopra della vallata e poco al di sotto dei richiami delle aquile. “Qui è iniziata la mia storia…” ci disse e ci fu subito chiaro che cosa intendesse. In quel castello era cominciata la sua epopea.

“Avevo tentato di scappare, ma non avevo corso abbastanza, non ero riuscita a seminarli e mi avevano presa. Quindi, mi avevano rinchiusa qui. O forse, prima in un altro castello sul Lago e poi qui… non ricordo bene quei giorni… Non c’è bisogno di catene se Willa è il tuo carceriere. Suo marito aveva ucciso il mio Re perché loro figlio mi sposasse e io non dovevo assolutamente rovinare i piani. Andavo bene anche quasi morta e Willa cominciò, di giorno in giorno, a razionarmi il cibo. Ero sempre più debole. Cercavano di fare leva sulla mia piccola Emma, se mi fossi sposata lei avrebbe potuto tornare al sicuro tra le mie braccia. Ma io non volevo cedere ai loro ricatti, anche quando cominciai a sentire le voci e la presenza della dama bianca che si aggira di notte in questo castello”.

Questo castello porta il nome di Domofole. Si racconta che la Regina Teodolinda ci fece marcire dentro sua figlia per punirla del suo adulterio. Per domare la follia delle genti che abitano questi borghi radicati precariamente sulla pietra rovente – li chiamano i Céch, proverbialmente ciechi alla Fede – serviva un maschio solitario come questo, possente quanto tenebroso. Chi finiva nelle sue segrete passava dalla parte del Diavolo. Non ne è uscito vivo nessuno, a parte mia madre. Da chi fuggi, mamma? Da quella parte oscura di te che hai visto qui dentro e che hai paura di rincontrare? Non faccio in tempo a chiederglielo, poiché il suo racconto si fa più incalzante e più femmina…

“Il popolo vede quello che gli fa comodo. Dicono che Ottone si innamorò di me per la mia virtù, ma sono solo favole che si raccontano le fanciulle mentre cardano la lana. Era quasi venuta la mia ora e così chiamarono per me un frate, che finse di esorcizzarmi. Non ero pazza, andavo solo salvata. Mi promise che avrebbe chiesto aiuto a un suo caro amico, un uomo molto influente. Mati, quest’uomo era tuo padre, Ottone, l’Imperatore di Tutto il Mondo. Mi salvò, questo è vero – mi mise in un altro castello sotto la sua protezione. Ma gli uomini hanno sempre questa stupida presunzione di voler essere dei cacciatori, come dei vermi attaccati alla lenza. Se con Lotario avevo conosciuto l’amore di Sua Maestà, con Ottone conobbi quello ferino della bestia. Successe tutto in una notte, lui si infilò nel mio letto e, alla fine, mi domandò se mi era dispiaciuto. Non gli risposi, tremavo e basta, anche se non ero terrorizzata dalla sua vicinanza. Mi rassicurò di essere un uomo consacrato e che mi avrebbe sposata. Mi aveva assaggiata, per vedere se valessi la pena per un pasto completo. Diventai sua moglie…”. Mia cognata si fece coraggio e parlò. “Siete diventata la Nostra Imperatrice lo stesso anno”. “Ti sbagli, Stefania!” la corresse. Non è che non sapesse il suo nome, era il suo testardo modo di ricordarle che, anche se proveniva da Bisanzio, aveva sposato un occidentale del quale doveva onorare gli usi. “Teofano”. Glielo ricordava sempre, a vuoto, le sue erano parole al vento che arrivavano come lacrime scintillanti fino al Bosforo nelle ore carminie del tramonto. “Vero, mi sposai quell’anno stesso. Andai in Germania con lui, ma solo in un secondo momento il trono fu tolto a coloro che mi avevano quasi uccisa. Non si dichiara mai guerra per una donna, si finisce come a Troia…”. A mia madre le cose che provenivano dall’altra sponda dell’Adriatico parevano infestate dai pirati.

Ottone, mio padre, era nato con un oroscopo infausto. A cavallo tra un segno e l’altro, possedeva l’istinto miope dello Scorpione e l’azzardo inquieto del Sagittario. Aveva ventidue anni più di mia madre e, benché lei conoscesse già bene le regole del gioco, lui l’avrebbe sconfitta sempre con l’esperienza o con la sua abilità di baro. Lui era uno stratega e per questo tutto il Mondo gli stava obbediente ai piedi. Prima di mia madre, aveva avuto un’altra moglie e un’altra stirpe. Prima ancora, libero dai vincoli matrimoniali, aveva ingravidato una nobile prigioniera slava. Gli piaceva giocare a nascondino, non gli importava affatto in quale ruolo. Con mia madre, i figli non arrivarono subito. Era noto che lei era stata già usata e il Buon Dio, vedeva e provvedeva. Enrico morì quattro giorni dopo essere stato partorito, ai primi di luglio, mentre le balie erano impegnate nei campi. Ottone era molto preoccupato per la sua Adelaide, che era già stata messa a prova dal periodo di prigionia. Eppure, lei gli regalò noi. Nacque il futuro erede al trono e undici mesi dopo io, Matilda. Fui chiamata come la madre di mio padre e, anche se femmina, non potevo avere meno privilegi di mio fratello. Io e Ottone siamo cresciuti insieme, quasi come gemelli. A lui furono riservate le fortune degli uomini, a me gli oneri. Sembravano Apollo e Diana, ma nel nostro Olimpo anche gli Dei piangevano lacrime amare. Con noi abitava anche Emma, la sorellastra più grande, la figlia del Re. Mio padre la trattava come una bambola di porcellana e, di fatto, nessuno aveva mai pensato che nella sua testa di vetro albergasse anche un cervello.

Era molto bella, possedeva quella leggiadria francese nei lineamenti che noi Sassoni non avevamo. Non avevamo capelli di seta, pelle profumata, dita affusolate o la voce soave. Lei lo sapeva, sapeva di essere guardata. Abbozzava sorrisi e si guardava la punta dei piedi. Non prima di averti lanciato un breve sguardo dei suoi, innocenti e perversi al contempo. In cuor mio, l’avevo sempre detestata, ma quando lasciò la nostra dimora fui presa da una strana malattia che m’impediva di mangiare. A mio padre non fu difficile convincere il Re di Francia a sposarla e lei non tardò a far parlare male di sé. Suo cognato l’accusò di aver tradito il marito con il vescovo Adalberone, un incapace che mischiava preghiere con la satira politica, per farsi acclamare dal popolino, dagli attaccabrighe e dai dissidenti. A mio avviso, aveva sbagliato mestiere, avrebbe fatto fortuna come giullare. Tutto sommato, a Emma andò bene: le accuse vennero smontate e suo cognato venne esiliato. Per non farmi sentire da meno, papà riservò una sorpresa anche per me. Mi disse “Così ti sarà meno di fastidio la mancanza di Emma”. Lui l’aveva capito prima di me e si tenne stretto il segreto inconfessabile. Aveva capito la mia voglia di rimanere femmina in mezzo alle femmine e che, anche se non lo temessi, schifassi il genere maschile. Mia madre non lo seppe mai, almeno non da me.

Mio padre aveva voluto per me una cerimonia splendida. Ero la sua figlia femmina che malauguratamente più gli somigliava. Mi illusi che, volendomi sollevare dalle incombenze di un matrimonio combinato, mi avesse in un qualche modo capita. In realtà, come pedina gli servivo lì, in terra tedesca. Gli bisognavo io in quel posto, poiché non mi sarei piegata ai primi venti di marzo. Dentro di me, a differenza di mio fratello, non ribolliva il sangue denso della Borgogna. Senza distrazioni, avrei governato i nostri sudditi al di sopra delle Alpi da dentro il mio monastero; mamma, papà e Ottone, invece, sarebbero scesi in Italia. Avevo solo undici anni e il giorno della mia consacrazione sentii per la prima volta le carni al di sotto della mia cintola sgretolarsi. Mi accorsi che sanguinavo. Mia madre mi spiegò che è naturale che succeda alle bambine quando diventano donne. Aggiunse anche che non era una buona giornata in cui mettersi a frignare. Ciò che si dimenticò di farmi sapere è che non mi sarebbe più stato concesso piangere. Avrebbe potuto rimanere ancora un po’ con me, invece, con la fuga negli occhi, mi disse ” Bambina mia, sei una Badessa ora, più intoccabile di una principessa!”. Ero stata, di fatto, messa a capo dell’abbazia fondata da mia nonna paterna. Si chiamava come me, Matilda, e l’avevano proclamata Santa pochissimo dopo la morte. Ogni Quattordici Marzo la si ricorda insieme alle ricamatrici, alla pazienza che le donne hanno nell’intessere i colori tra trama e ordito, ai loro calli sulle dita, all’ago che, di colpo, affonda sottopelle ricordando loro la paura di rimanere sole. Ai miei tempi si diceva che poter buttare fuori le lacrime era un privilegio da donne. Avrei riso sguaiata se mi fosse stato concesso il privilegio di non aver sempre un nodo perpetuo in gola.

Mia nonna, prima di sposarsi, aveva scelto la vita monastica. A lei vivere dentro a una scatola preziosa non dispiaceva. Le fu imposto il matrimonio con nonno Enrico, detto L’Uccellatore, un soprannome lodevole tra i nobili e motivo di scherno tra gli zotici all’osteria. Rimasta vedova, aveva fondato la mia abbazia, un gineceo esclusivo dove le ragazze dell’alta nobiltà, in attesa del loro futuro, imparavano i sofismi delle Lettere e delle Arti. Per me era un doloroso distacco sia quando varcavano la porta per sposarsi, sia quando decidevano di chiudersi a chiave per consacrarsi. La solitudine, anche quando la sai accettare, ti corrode piano piano fino al midollo. Io, lasciata a sgranare un Rosario attaccato al collo come una catena, in quanto Badessa, dovevo fingermi forte tra uomini avidi di potere e gonfi di vanagloria. Non sapevo che cosa nascondessero dentro ai loro calzoni, ma sapevo che tutta la loro sicurezza veniva da lì, dalla consapevolezza di avere forza bruta, di poter vincere facendo del male.

In quegli , lasciata a me stessa, mi resi conto che, anche se eravamo cresciuti in simbiosi, il mio destino e quello di mio fratello si erano separati. Io, a diciassette anni, mi dovevo guardare le spalle dalle spie, dai nemici che si presentavano come amici; lui, invece, stava per sposarsi con la donna più bella sia dell’Est sia dell’Ovest, Teofano. La sua famiglia governava su Bisanzio e mio padre non avrebbe potuto trovargli una compagna più ricca, più saggia e più equilibrata. Avevano voluto anche me a Roma, per l’occasione. Il suo viaggio per mare per raggiungerci ci costò giorni d’attesa. Quando mio fratello la vide per la prima volta fece tre passi indietro: era talmente preziosa da brillare di luce propria, sembrava fatta di ebano e madreperla. Era nostra coetanea, ma sembrava avere l’età incorruttibile delle statue di marmo pario. Fu incoronata Imperatrice il giorno del suo matrimonio così che, di fatto, la nostra famiglia potesse avere potere dall’alba fino al tramonto.

I miei genitori, quindi, tornarono con me in Germania, anche se il nostro ricongiungimento non durò a lungo. Mio padre morì meno di un anno dopo a inizio maggio, a causa delle febbri delle messi. Il suo corteo funebre durò un mese e, al trentunesimo giorno, mia madre ripartì per l’Italia. Mio fratello avrebbe dovuto regnare senza i consigli di mio padre e lei sapeva che, nella sua indole ereditaria, c’era l’istinto di scappare per non essere preso. Prima di partire, mi salutò “Ottone non è come te e come tuo padre. Voi sapete come trattenere l’infinito o una libellula tra le mani senza mandarli in frantumi”. Avrei voluto rimanesse con me. “Imparerà” la rassicurai. Scosse la testa. “Prega per lui, Mati!” mi preparò al peggio. Io e Ottone eravamo nati con i destini scambiati.

La convivenza tra mamma, Ottone e Teofano fu tutt’altro che idilliaca. Mamma e nuora non riuscivano a stare nel medesimo luogo senza pestarsi, anche involontariamente, i piedi. Mia madre non sopportava che lei avesse un’intelligenza più sopraffina di quella di mio fratello, il quale aveva dei sentimenti troppo intensi, lui dava tutto e subito. Mia madre aveva fatto male i suoi conti e pensava  di poter sistemare i giocattoli che Ottone aveva sparso per terra. Invece, ci aveva già pensato sua moglie che, intanto, gli aveva insegnato nuovi ludibri.
Teofano si trovò costretta a inviarmi una lettera in cui chiedeva la mia intercessione: mia madre entrava troppo in merito in faccende che non la riguardavano e Ottone era troppo mammone per chiederle di rimanere al suo posto. Decisi di partire per l’Italia, la Primavera che sapeva di gelsomino era ancora abbastanza tiepida per non togliermi il respiro.
“Madre!?” la richiamai all’ordine. “Mati!?” fece finta di non sapere perché mi trovassi lì. “Quindi è vero?” le domandai. “Una madre si preoccupa…” si giustificò. “Sei andata a spiarli nell’alcova!” non era facile discolparla. “Che Dio ti perdoni! No! Ci ho mandato un servo!” sminuì la faccenda. La guardai senza capire il senso. “Maledetta scrofa! Dovrebbe dare un erede a mio figlio invece di traviarlo!” fece uscire denso il suo rancore. “Adelaide e Sofia sono delle bambine sane, entreranno nel mio convento e io sarò ben felice di averle vicine a me!” le ricordai. Adelaide giocava ai miei piedi con una bambola di pezza e Sofia, di pochi mesi, se ne stava al caldo tra le mie braccia. Erano il mio surrogato alla maternità negata. “Mamma!?” cercai di attirare le sue attenzioni. Non rispose. “Adelaide!?” ci riprovai e lei, al suo nome di battesimo, si voltò. “Non puoi decidere tu cosa avviene tra un marito e una moglie che al cospetto di Dio si sono giurati fedeltà!” fui spiccia. Mi chiamavano a risolvere i loro problemi triviali come se io, la suora, non desiderassi ricevere del calore umano, algida e al di sopra dei desideri carnali.
Che potevo dire io a Teofano? Brava, hai capito come fare in modo che tuo marito non abbia stuole di concubine! L’abbracciai e basta. Sapevo che sarebbe ancora rimasta incinta e che, presto, con l’arrivo del maschio, mia madre si sarebbe data una calmata. Non era gelosa, temeva per il Regno. Temeva che si sarebbe dovuta rimettere a correre. A mio fratello non dissi nulla, ci bastò solo uno sguardo. Non sarebbe mai riuscito a sopportare gli orrori della guerra senza chiudersi in una stanza a fare l’amore. Anche io ero colpevole di desiderare qualcosa che nemmeno conoscevo. Strinsi più forte il cilicio, il dolore da me inferto mi dava più sollievo che pena. Sarei finita all’Inferno? Forse, qualcuno da Lassù ascoltò le mie preghiere. Al termine di un parto durato ore, vennero al mondo due gemelli. La femmina era nata morta, ma al maschio fu dato il nome della stirpe, Ottone III.

Per tre anni mia madre restò in convento con me. Furono tre anni di troppa gioia che pagammo con la morte improvvisa di mio fratello che, non ancora trentenne, morì di malaria. La sua sepoltura in un paese straniero, in quell’Italia troppo mediterranea per sentirla al centro del nostro Mondo, non fu degna del suo titolo, ma avevamo altri problemi per poterci concedere di pensare ai Requiem. L’Imperatore ereditario aveva solo tre anni. Le minacce da sud e da est minacciavano la stabilità della corona. Ci voleva un governo energico per sostenere la situazione. Così, il nostro lutto non durò che tre settimane. Mia madre decise che ci saremmo sedute noi tre insieme su quel trono pieno di spine. Per questo, ci portò lì dove era iniziato tutto, ai piedi del Castello di Domofole.

Cosa si diranno le tre donne ai piedi del Castello di Domofole? Riusciranno, insieme, a salvare il Regno? Come cambierà il loro destino la prematura morte di Ottone? * lo scopriremo nella prossima e ultima puntata di martedì 25 ottobre! *

 

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Written by: blog_user

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